Il Trauma psicologico in età evolutiva.
Alessandro Gamba
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Per lungo tempo il trauma in età evolutiva è stato collegato principalmente alle esperienze conclamate di abuso sessuale e/o di violenza fisica, mentre ora si pone attenzione anche ai significati traumatici implicati nelle esperienze di maltrattamento psicologico. Durante l’infanzia la disponibilità fisica ed emotiva da parte di un adulto rappresenta una condizione essenziale per la sopravvivenza e di contro le condizioni di abbandono e/o negligenza fisica e psicologica comportano un considerevole impatto traumatico. Diversamente dalla vita adulta, quindi, dove il maltrattamento psicologico, sebbene possa essere un’esperienza dolorosa, non dovrebbe rappresentare, di per sé, un trauma.
La possibilità di reagire efficacemente a una minaccia pone dunque il confine tra un’esperienza estrema e grave, ma non necessariamente patogena, e il trauma psicologico. Partendo da questa premessa è facile immaginare come nell’infanzia tanto più il soggetto è dipendente e vulnerabile (proprio in termini biologici relativi allo status di infante) tanto più facilmente può sperimentare il trauma di fronte ad eventi avversi.
Come scrivono Liotti e Farina (2011) buona parte delle teorie moderne sul trauma e i suoi effetti si rifà alle idee di Pierre Janet, che operò in Francia tra la fine dell’800 e la prima metà del 900 ed è infatti considerato il pioniere della moderna psicotraumatologia. Per Janet il trauma psicologico è identificabile in base alle “emozioni veementi” che sopraffanno la capacità di gestirle nella coscienza. Janet descrisse l’effetto frammentante e disorganizzante delle esperienze traumatiche sullo sviluppo affettivo e cognitivo dell’individuo (Van der Kolk, van der Hart, 1989). Secondo Janet la psicopatologia post-traumatica consiste nella perdita della coerenza e dell’integrazione delle attività psichiche, conseguente alla progressiva dissoluzione delle funzioni di coscienza. Secondo questa teoria patogenetica le memorie traumatiche non vengono rimosse (perché intollerabili) dopo essere state registrate, così come postulava la psicoanalisi, ma fin dall’inizio non possono integrarsi nella sintesi personale attraverso la funzione di realtà. Di fronte al trauma si creano dunque in modo diretto le condizioni per un difetto di registrazione dell’evento nella memoria e per la sua separazione dal flusso abituale della coscienza.
Gli autori attribuiscono a Janet il merito di aver definito chiaramente il concetto di trauma psicologico e descritto accuratamente la natura delle sue conseguenze psicopatologiche. Nonostante ciò la sua opera fu per molti anni pressoché dimenticata. Dopo la morte del suo successore alla direzione della clinica Salpetrière, Charcot, gli studi sull’isteria (i cui disturbi avevano chiaramente come primo responsabile il trauma psicologico) vennero trascurati e Janet fu isolato. Janet non ebbe mai una scuola né allievi e fu presto oscurato da Freud, con il quale entrò in un insanabile contrasto. Il padre della psicoanalisi aderì inizialmente alle tesi di Janet fornendo uno dei più importanti contributi allo studio dell’origine traumatica dell’isteria ipotizzandone l’origine in abusi sessuali nell’infanzia. In un secondo tempo, però, Freud divenne un severo critico delle sue stesse teorie contestando anche il lavoro di Janet, fino a rinnegare fermamente l’effetto delle esperienze traumatiche reali nello sviluppo psicopatologico: i sintomi isterici per Freud divennero l’espressione simbolica del conflitto tra desideri inconsci e difese dell’Io. Dopo la morte di Freud, per più di mezzo secolo, l’ortodossia psicoanalitica mise una pietra tombale sule teorie sul trauma e gli psicoanalisti che tentarono di recuperare questi concetti, da Ferenczi a Bowlby, rischiarono di essere bollati come “eretici” (Liotti, Farina 2011).
La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1980) è un caposaldo di tutta la psicologia moderna ed ha espresso la sua influenza in modo trasversale nelle discipline affini, rappresentando ad oggi un riferimento chiave anche in psicologia giuridica. L’approccio al problema del bambino traumatizzato, che utilizzo in questo articolo, si muove dunque dalle teorie di Bowlby e degli altri autori che si sono occupati di portare avanti il suo lavoro (Holmes 1994, Ainsworth 2006, Liotti 2005).
L’APA (American Psychiatric Association), per quanto riguarda il concetto di trauma, non sembra aver raccolto l’ eredità di Janet. Per il DSM il trauma psicologico è anzitutto “l’esperienza personale di un evento che causa può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all’integrità fisica”. Inoltre, la definizione di trauma psicologico deve essere estesa a includere aspetti relazionali: minacce gravi non all’integrità fisica di un organismo ma al tessuto delle sue relazioni. E’ considerato trauma psicologico l’essere presente a “un evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all’integrità fisica di un’altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettate, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o altra persona con cui si è in relazione” (APA, 1996).
Tale definizione appare ancora insufficiente: una grave minaccia può essere implicita in situazioni non direttamente legate all’integrità fisica come nel caso della grave trascuratezza emotiva dei genitori nei confronti del bambino. L’elemento di percepita totale impotenza, in particolare, appare di cruciale importanza nella stessa definizione di trauma, e non solo nella descrizione delle risposte a un evento traumatico. Dunque il trauma psicologico, sebbene abbia solitamente un carattere di oggettiva gravità, è sempre definito in rapporto alle capacità del soggetto di sostenerne le conseguenze. In questo senso il trauma è definibile come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce.
Il DSM-5 (APA, 2013) ammette la diagnosi di PTSD in età evolutiva. In presenza di un evento traumatico, il PTSD si può manifestare a qualsiasi età fin dal primo anno di vita, può insorgere durante i primi tre mesi dall’evento traumatico, tuttavia, è possibile che la comparsa della sintomatologia ritardi di mesi o anni.
Gli esiti delle esperienze traumatiche possono essere vari e i quadri sintomatici contemplati sono il Disturbo da Stress Acuto, il Disturbo da Impegno Sociale Disinibito e il Disturbo Reattivo dell’Attaccamento, i Disturbi dell’Adattamento, il Disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti con altra specificazione, il Disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti senza specificazione. Nel DSM-5 viene, inoltre, individuato un sottotipo di PTSD per i bambini in età prescolare per i quali viene precisato che i ricordi spontanei e intrusivi non appaiono necessariamente come spiacevoli e possono essere espressi attraverso il gioco ritualizzato.
Il focus principale resta la presenza di un evento traumatico che abbia caratteristiche oggettive (criterio A). Questo accade perché storicamente i primi studi che hanno condotto alla diagnosi di PTSD risalgono a indagini sui reduci di guerra. L’evoluzione clinica è stata associata alle caratteristiche dell’evento avverso che rendono difficile l’elaborazione emozionale: il carattere improvviso dell’evento, la sua intensità, la pericolosità, l’imprevedibilità e la incontrollabilità (Giamundo, 2007 Semeraro, 2016).
Il DSM-5 considera le risposte soggettive emotive della persona traducendole in comportamenti osservabili dal clinico, suddivisi in quattro categorie: sintomi intrusivi, evitamento, alterazioni negative di pensieri ed emozioni e alterazioni dell’arousal.
Semeraro (2016) spiega come nei bambini la riattualizzazione dell’evento traumatico può essere espressa attraverso disegni ripetitivi o gioco post-traumatico (un gioco, che rappresenta la messa in atto di alcuni aspetti del trauma, viene condotto in modo compulsivo, senza una riduzione dell’ansia, ed è letterale e meno immaginativo). Gli incubi spesso non hanno un contenuto riconducibile al trauma, ma si trasformano in sogni spiacevoli di mostri o di altre minacce verso se stessi, o ad altri significativi. Le marcate reazioni fisiologiche possono essere espresse come mal di testa o mal di stomaco.
L’evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico nei bambini può essere massiccio. Molti bambini e adolescenti, che hanno vissuto eventi traumatici, hanno difficoltà ad identificare ed esprimere il loro vissuto e questa reticenza potrebbe essere interpretata come una forma di rifiuto. I genitori potrebbero erroneamente credere che il bambino abbia dimenticato l’evento traumatico perché non ne parla, invece accade spesso che sia più facile per i bambini condividere i dettagli di eventi traumatici con estranei (ad esempio, durante l’ascolto protetto in ambito peritale o nelle SIT – sommarie informazioni testimoniali), per paura di sconvolgere o ferire i loro genitori. Va tenuto presente che nei bambini è difficile mettere in luce stati soggettivi anche perché le capacità di verbalizzazione e di insight non sono ancora adeguatamente sviluppate (Ammaniti, 2015).
La divisione tra i cluster di sintomi “evitamento” (criterio C) e “alterazioni negative di pensieri ed emozioni” (criterio D), non viene mantenuta per i bambini sotto i sei anni. Questi sintomi nei bambini corrispondono alla limitazione del gioco, un comportamento socialmente ritirato e un aumento di emozioni di paura, collera, colpa, tristezza, vergogna e confusione. Tuttavia, nei bambini la varietà di sintomi riconducibili ad un PTSD spazia da regressione dello sviluppo a disturbi del sonno, paure e fobie di varia natura, pensieri intrusivi e ricorrenti, ansia da separazione, sentimenti di colpa, instabilità attentiva e motoria, crisi di rabbia, difficoltà di comunicazione e di relazione con l’altro, difficoltà di concentrazione, disturbi della memoria, depressione, inibizione, comportamenti oppositivi e/o distruttivi, sintomi dissociativi (Giamundo, 2007). Per i bambini in età prescolare viene specificato che l’evento traumatico avrà conseguenze più gravi se riferito ai caregiver primari, a membri della famiglia o altre figure di accudimento.
La disregolazione degli stati emozionali e di arousal costituisce uno dei segni più chiari di avvenuta traumatizzazione. Il termine arousal traducibile come “stato di attivazione” si riferisce alla reattività dell’organismo, rispetto a stimoli di varia natura, che può essere misurata.
Difficilmente la sintomatologia del PTSD si presenta in forme strutturate e facilmente definibili in età evolutiva, è possibile riscontrare spesso sintomatologie parziali e i sintomi possono comparire a distanza di poche ore dall’evento traumatico, ma anche di giorni o settimane. Per alcuni bambini, inoltre, la sintomatologia può comparire con una grande intensità ed essere seguita da una graduale remissione, mentre per altri, i sintomi possono perdurare e aggravarsi (Semeraro 2016).
- Bambini in età pre-scolare spesso mostrano agitazione e disorganizzazione comportamentale e regressioni. Possono emergere paure generalizzate, ansia da separazione, comportamenti evitanti e disturbi della regolazione (sonno, alimentazione, evacuazione).
- Bambini in età scolare presentano cadute del funzionamento intellettivo e dell’apprendimento, impulsività, aggressività, ipervigilanza e iperattività o al contrario apatia e/o depressione (per esempio in forma di disinteresse verso le attività ludiche, ricreative o verso l’interazione sociale con i coetanei), problemi del sonno e disturbi della regolazione (alimentazione, evacuazione).
- Gli adolescenti traumatizzati manifestano altre reazioni post-traumatiche, come i disturbi depressivi e disturbi d’ansia. Frequentemente mostrano comportamenti impulsivi o aggressivi, condotte esternalizzanti, comportamenti a rischio e condotte autolesive, abuso di sostanze stupefacenti e alcool, condotte sessuali a rischio e patologie somatiche.
Le stime dicono (Shore 2002) che circa il 60% degli uomini e il 50% delle donne incontra nella vita un possibile evento traumatico ma solo rispettivamente il 5% e il 10% sviluppa un PTSD. Oltre all’analisi delle differenze individuali e al concetto di resilienza, si è spostata l’attenzione alla storia di sviluppo (qualità delle cure) che è alle spalle degli individui che si trovano a fronteggiare eventi traumatici. La diagnosi di PTSD descrive le conseguenze di un evento traumatico ma mal si adatta a descrivere le conseguenze del trauma prolungato o dello sviluppo.
Che succede dunque se il bambino vive in condizioni stabili di minaccia soverchiante da cui è impossibile sottrarsi e che costellano, ripetendosi con effetti cumulativi, ampi archi di tempo dello sviluppo individuale (per esempio proprio le condizioni di violenza e trascuratezza a cui è esposto per anni un bambino che cresce in una famiglia maltrattante)?.
Per descrivere le reazioni a situazioni trascuratezza o abuso, spesso ripetute e protratte nel tempo, sono state proposte diverse revisioni del costrutto nosografico di PTSD che tenessero conto delle variabili evolutive e della natura pervasiva dei disturbi legati al trauma nella prima infanzia (Giamundo, 2014).
Nel tempo, numerosi studi e analisi hanno condotto alla proposta di nuove categorie diagnostiche:
- il complex Post Traumatic Stress Disorder (cPTSD) (Herman, 1992);
- il Developmental trauma disorder (DTS) o Trauma dello Sviluppo (TdS) (van der Kolk, 2005)
Entrambe le classificazioni si rifanno al concetto di trauma complesso, con cui si intendono “tutti quei traumi che a differenza di quelli singoli, si ripetono in intervalli di tempo prolungati e hanno un’origine tipicamente interpersonale” (Foschino, Pellegrini, 2015 ). Quando questi traumi si verificano in infanzia o adolescenza possono causare deficit nella regolazione delle emozioni, impulsività, gravi problemi relazionali, somatizzazioni, dissociazione della coscienza ed alterazioni dell’identità (Liotti e Farina, 2011). Queste esperienze rappresentano le condizioni di maggiore rischio poiché inficiano all’origine i processi di sviluppo in formazione e coinvolgono il contesto familiare, che normalmente è preposto a garantire il benessere del bambino.
Il cPTSD implica dunque l’esposizione a esperienze negative multiple e continuate; oltre a essere un trauma prolungato e ripetuto, il trauma complesso è tipicamente di natura interpersonale e capita in circostanze alle quali non è possibile sottrarsi psicologicamente o fisicamente. La ricerca clinica ed epidemiologica hanno dimostrato che, negli adulti, la vulnerabilità agli eventi traumatici è inversamente proporzionale alla qualità delle condizioni in cui avviene lo sviluppo infantile. Un evento traumatico, dunque, comporterebbe l’insorgere di sintomatologia psichiatrica (in particolare dissociativa) soprattutto negli individui che abbiano avuto un trauma dello sviluppo. L’abuso infantile risulta essere predittivo di cPTSD e comporta una compromissione funzionale di grado superiore rispetto a ciò che accade per un evento singolo predittivo di PTSD.
Nonostante gli strenui sforzi messi in atto dalla comunità scientifica per integrare, al’interno del DSM la complessità dell’impatto del trauma sulla mente e sul cervello, non abbiamo al momento un adeguato riferimento diagnostico; di conseguenza, per la psichiatria e la psicologia è impossibile studiare in modo organizzato e coerente i pazienti con traumi complessi. Il bisogno urgente di una diagnosi per il trauma interpersonale che sia sensibile ai temi dello sviluppo è provvisoriamente soddisfatto dal DTS.
Si riporta di seguito la tabella tratta da Lanius, Vermetten, Pain (2012):
I criteri di consenso proposti per il Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTS).
Vi sono cinque criteri (A-E); ognuno di essi presenta specifiche caratteristiche che devono venire osservate, in parte o in toto.
- Esposizione
Il bambino o la adolescente ha vissuto o è stato testimone di molteplici o prolungati eventi sfavorevoli per un periodo di almeno un anno, con inizio nell’infanzia e nella prima adolescenza. Devono essere incluse entrambe le seguenti situazioni:
- esperienza diretta o testimonianza di gravi episodi di violenza interpersonale
significative interruzioni del caregiving protettivo in conseguenza di ripetuti cambiamenti nel caregiver primario, ripetute separazione dal caregiver primario, o esposizione a gravi e persistenti abuso emozionale.
2. Disregolazione emozionale e fisiologica
Il bambino mostra problemi nelle competenze evolutive di riferimento relativamente alla regolazione dell’arousal, includendo almeno due dei seguenti punti:
- incapacità di modulare, tollerare o riprendersi da stati emozionali estremi (come ad es. paura, rabbia, vergogna), inclusi i capricci prolungati estremi o immobilizzazione.
- disturbi della regolazione delle funzioni corporee (come ad es. persistenti disturbi del sonno, dell’alimentazione e dell’evacuazione; iper-reattività o ipo-reattività al tatto e ai suoni; disorganizzazione durante i passaggi tra le routine quotidiane).
- diminuita consapevolezza/dissociazione di sensazioni, emozioni e stati corporei.
- difficoltà a descrivere emozioni o stati corporei.
3. Disregolazione dell’attenzione e del comportamento.
Il bambino mostra problemi delle competenze evolutive di riferimento relativamente al mantenimento dell’attenzione, all’apprendimento o alla gestione dello stress, includendo almeno tre dei seguenti punti:
- eccessiva preoccupazione per la minaccia o difficoltà a percepirla, includendo il fraintendimento dei segnali di sicurezza e di pericolo
- diminuita capacità di proteggersi, inclusi i comportamenti ad alto rischio o la ricerca del brivido
- tentativi disadattivi di calmarsi (ad es. dondolio o altri movimenti ritmici, masturbazione compulsiva)
- autolesionismo abituale (intenzionale o automatico) o reattivo
- incapacità di iniziare o mantenere un comportamento diretto a un obiettivo
4. Disregolazione relazionale e del sé.
Il bambino mostra problemi nelle competenze evolutive di riferimento relativamente al senso di identità personale e di coinvolgimento nelle relazioni, includendo almeno tre dei seguenti punti:
- intensa preoccupazione per la sicurezza del caregiver o di altri soggetti amati (includendo la genitorializzazione precoce), o difficoltà a tollerare il loro riavvicinamento dopo una separazione.
- persistente senso negativo del sé, incluso il disgusto di sé, impotenza, disvalore, inefficacia o difettualità
- sfiducia estrema e persistente, disprezzo o mancanza di reciprocità nelle relazioni strette con adulti o con pari
- aggressività reattiva di tipo fisico o verbale verso i pari, i caregiver o altri adulti
- tentativi inappropriati (eccessivi o promiscui) di stringere contatti intimi che includono (ma non sono limitati a) intimità sessuale o fisica o eccessiva dipendenza verso pari o adulti, alla ricerca di sicurezza e rassicurazione
- difficoltà a regolare l’arousal empatico, come evidenziato da assenza di empatia per, o intolleranza verso, espressioni di disagio degli altri, o eccessiva responsività al disagio degli altri
5. Durata del disturbo
I sintomi elencati nei criteri B, C, D hanno durata di almeno 6 mesi.
6. Danno funzionale.
Il disturbo causa disagio clinico significativo o danno in almeno due delle seguenti aree di funzionamento:
- scolastico: rendimento insufficiente, assenze, problemi disciplinari, abbandono, incapacità di completare gli studi, conflitto con il personale scolastico, incapacità di apprendimento o problemi cognitivi non spiegabili da fattori neurologici o di altro genere
- familiare: conflitto, evitamento/passività, fuga, distacco e sostituzione con surrogati, tentativi di danno fisico o emozionale a membri della famiglia, inadempienza rispetto alle responsabilità familiari
- gruppo dei pari: isolamento, affiliazione a sottogruppi devianti, persistente conflitto fisico o emozionale, evitamento/passività, coinvolgimento in azioni violente o pericolose, affiliazioni o stili di interazione inappropriati per l’età
- legale: arresti/recidività, detenzione, condanne, carcerazione, violazione della libertà vigilata o di altri tipi di sentenze legali, reati progressivamente più gravi, crimini contro terzi, indifferenza e disprezzo per la legge o per gli standard morali convenzionali
- salute: malattia fisica o problemi non del tutto spiegabili da lesioni fisiche o malattie degenerative, che coinvolgono il sistema gastrointestinale, nervoso (inclusi i sintomi di conversione e analgesia), genito-urinario, immunitario, cardio-polmonare, la propriocezione e la sensorialità; sono inclusi i gravi mal di testa (inclusa l’emicrania) e il dolore o l’affaticamento cronici
- vocazionale (per i giovani in cerca di lavoro, apprendistato o impiego nel volontariato servizio civile): disinteresse per il lavoro, incapacità di ottenerlo, persistente conflitto con colleghi o supervisori, occupazioni al di sotto delle proprie abilità, incapacità di raggiungere le prevedibili promozioni.
Nei bambini con storie di abusi e di abbandono, come quelli che si vedono sovente negli ambulatori, nelle scuole, negli ospedali, nelle stazioni di polizia o negli studi dei consulenti, le origini traumatiche dei comportamenti sono meno evidenti, soprattutto perché raramente essi riferiscono di essere stati abbandonati o minacciati, nonostante venga loro chiesto. Come riporta Van der Kolk (2014) l’82% dei bambini traumatizzati visti all’interno del National Traumatic Stress Network non soddisfaceva i criteri diagnostici per il PTSD. A causa del loro mutismo, della loro sospettosità e dell’aggressività, ricevevano diagnosi “pseudoscientifiche” (dal Disturbo Oppositivo Provocatorio al Disturbo Dirompente da Disregolazione dell’umore). Le numerose espressioni cliniche del danno da trauma interpersonale infantile sono oggi purtroppo relegate a una varietà di comorbilità apparentemente non connesse tra loro, come il Disturbo della condotta, la Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD), l’ansia fobica, il Disturbo reattivo dell’attaccamento, l’ansia da separazione e, soprattutto, il Disturbo Bipolare (che con il suo ampio e variabile spettro sintomatico finisce troppo spesso per essere un “comodo” contenitore meta-diagnostico). Nel 2009 Van der Kolk (2014), insieme ai suoi collaboratori del Trauma Center, presentò la proposta diagnostica di Developmental Trauma disorder (DTD) all’American Psychiatric Association, precisando quanto segue nella lettera di presentazione:
I bambini che crescono in un contesto che li espone a costante pericolo, maltrattamenti e sistemi di caregiving caotici sono considerati malati in base agli attuali sistemi diagnostici, che pongono l’accento sul controllo del comportamento, senza riconoscere l’impatto del trauma relazionale. Studi su traumi ricorrenti, come l’abuso infantile o la trascuratezza, hanno dimostrato con molta evidenza che, a seguito di tali esperienze, i bambini sviluppano problemi cronici e gravi di regolazione emotiva, di controllo degli impulsi, dell’attenzione e dei sistemi cognitivi, di dissociazione, di relazioni interpersonali, di schemi relazionali e del sé. In assenza di una diagnosi trauma-specifica, questi bambini sono attualmente diagnosticati con una media di 3-8 disturbi in comorbilità. L’abitudine, sempre più frequente, di riferirsi a diagnosi multiple con bambini traumatizzati ha conseguenze gravi: sida la semplicità, oscura la chiarezza dell’eziologia del disturbo, corre il rischio di relegare il trattamento e l’intervento psicologico a un piccolo aspetto della psicopatologia e del bambino , piuttosto che promuovere un approccio terapeutico globale.
La lettera di risposta, che argomentava il rifiuto della proposta, incredibilmente spiegava che l’idea che le esperienza negative accadute nella prima infanzia portino a danni imponenti nel processo di crescita è da considerarsi più un’intuizione clinica che un dato empirico. Van der Kolk denuncia che “non si può creare un trattamento per una condizione medica che non esiste. Non disporre di una diagnosi corretta mette i clinici di fronte a un serio dilemma: come si trattano le persone (i bambini) che stanno affrontando le conseguenze di un abuso, di un abbandono, dal momento che siamo indotti a porre diagnosi che non descrivono esattamente la loro condizione? Le conseguenze dell’abuso e della trascuratezza da parte della figura primaria di attaccamento sono enormemente più comuni e complesse dell’impatto di un uragano o di un incidente motociclistico. Chi ha deciso di dare questa forma attuale al nostro sistema diagnostico, pertanto, ha deliberatamente pensato di non riconoscere tale evidenza. A oggi, dopo vent’anni e quattro successive revisioni, il DSM e l’intero sistema che si basa su di esso omette la realtà delle vittime di abuso e trascuratezza infantile, esattamente come è stata per anni ignorata la terribile situazione dei veterani, prima che il PTSD fosse introdotto nel 1980” (Van der Kolk 2014, p.165). L’inclusione del Disturbo Traumatico dello Sviluppo – TdD (o Disturbo post-traumatico complesso – cPTSD) nel sistema diagnostico rappresenterebbe un progresso significativo nell’ambito della psichiatria infantile. La disponibilità di questa diagnosi migliorerebbe il trattamento dei bambini che soffrono di trauma interpersonale. Una diagnosi basata sull’esposizione cronica a maltrattamento psicologico nell’infanzia ha il potenziale di allertare i clinici riguardo all’importante ruolo del trauma infantile in psicopatologia. E’ paradossale che le persone con storia di trauma complesso rappresentino, probabilmente, la percentuale maggiore di pazienti visitati nei centri di salute mentale, e tuttavia rimangano senza un nome e una “casa diagnostica” (Lanius, Vermetten, Pain 2012).
Fonti e Bibliografia:
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