Quello che segue è un scritto singolare, iniziato per divertimento ha poi preso la forma di una recensione che parla, seppur con una certa ironia, come un serissimo articolo scientifico sulla psicologia dell’attaccamento. E in più una reinterpretazione musicale. Insomma un medley un po’ complicato, forse perfetto per un fan dei Depeche Mode che fa pure lo psicoterapeuta.
Depeche Mode “A Broken Frame”, una pisco-recensione
Alessandro Gamba
www.studiodipsicologia.net
Nell’estate del 1982 esce il singolo Leave in Silence, Martin Gore esce allo scoperto come compositore unico della band dopo l’addio di Vince Clarke. I Depeche Mode, giovanissimi e tremendamente naif al loro esordio, sono appena diventati famosi in mezza Europa per aver fatto ballare ed entusiasmare un pubblico di adolescenti.
Il singolo apre il nuovo album, A Broken Frame, il cui titolo rappresenta il tentativo di rompere quella cornice entro cui la musica dei DM era stata sbrigativamente collocata. Questo album è probabilmente il più disomogeneo della loro discografia: accanto a brani leggerissimi e insignificanti dal punto di vista del songwriting, qua e là svettano liriche di puro isolazionismo che flirtano con atmosfere sonore sommessamente cupe e ridondanti. Una certa energia le attraversa e si fa spazio in mezzo alle altre canzoni che sembrano lì solo per confondere le acque.
Ho voluto accostarmi a questo disco con una lettura pseudopsicologica, utilizzando la lente della teoria dell’attaccamento di Bowlby, cimentandomi allo stesso tempo nell’interpretazione musicale di Leave in Silence, brano a cui in effetti sono molto affezionato.
Insomma, credo che questo articoletto-cover sia un po’ il mio rompere la cornice. Ho voluto mettere insieme, integrare i miei due grandi interessi: la psicologia e la musica (in particolare la mia passione per i DM che sì, lo posso dire con cognizione di causa, quando ero poco più di un ragazzino sono stati quasi una figura di attaccamento!).
Ho provato a farlo volandoci sopra, entrandoci dentro ed uscendone fuori con qualcosa in mano.
Nel riavvicinarmi all’ascolto di questo disco apprezzo oggi nei testi una “sfumatura evitante” che tratteggia alcuni brani in modo abbastanza chiaro. La copertina dell’album ritrae una donna al lavoro nei campi, sotto un cielo plumbeo dell’Hertfordshire, che brandisce una falce. L’immagine richiama il simbolismo socialista sovietico? Forse, ma si accosta molto meglio all’idea del taglio, della rescissione, della fine. Il taglio del granturco, che tronca via i frutti ma tiene vivo il terreno.
Il disco inizia con un coro un po’ liturgico che reclama subito serietà. La marzialità della linea ritmica di Leave in Silence, affidata a drum machine (Roland Tr 808 e Simmons SD-V) e ai timbri percussivi fatti uscire fuori dall’Arp 2600 del produttore Daniel Miller, è smussata da tappeti sonori compiacenti.
La traccia si mostra subito anche attraverso il suo richiamo irresistibilmente dance, il tema esplicito è quello di una relazione arrivata alla sua conclusione.
Il pezzo procede come un’orgogliosa cavalcata verso la rottura della relazione, nonostante la voce di David Gahan si esprima con una qualità fin troppo delicata, lontana dalla profondità baritonale che solitamente gli riconosciamo. L’incedere pulsante del basso (è il Moog Source di Andy Fletcher) porta al bellissimo assolo finale di synth (finale con assolo, una rarità in tutta la produzione DM). Questo apparente virtuosismo tecnico (in realtà frutto di programmazione con uno dei primissimi sistemi di computer music) ricorda il movimento nervoso e apparentemente coordinato di un corpo che perde alcune sue parti e cerca di ricompattarsi.
Ma si, è evidente. Leave in Silence è un inno all’evitamento dell’attaccamento!
Facendo un po’ di speculazione retrospettiva: Martin Gore all’epoca è un ragazzino con un grandissimo talento (che verrà celebrato solo un quarto di secolo dopo), che porta in queste canzoni l’incompiutezza della sua fragile personalità fatta di aspetti conflittuali e multiformi. Le biografie raccontano che a 13 anni gli fu stato svelato che suo padre non era in realtà il padre biologico (solo nel 1991 Gore scoprirà la possibile origine della sua anima blues, quando viene a sapere di avere un padre biologico di colore), e che avrebbe passato la sua adolescenza in modo piuttosto anonimo e isolato. Scriverà centinaia di canzoni, tutte in tonalità minore!
In A Broken Frame di fatto si intravede l’alba della sua maturità artistica e alcuni brani, qui ora cade il mio occhio, mi sembra esprimano proprio i meccanismi tipici dell’attaccamento evitante.
Leave in Silence, My Secret Garden, Satellite e Monument meriterebbero in questo disco una cornice nella cornice. Non voglio fare un’analisi strofa per strofa (che lascio agli appassionati con tratti ossessivi come me), ma non è difficile trovare in prosa qua e là, alcuni processi di pensiero, atteggiamenti, comportamenti tipici degli stili evitanti.
Per la persona evitante troncare la relazione significa un sollievo temporaneo, una tregua rispetto alla necessità di far fronte a sentimenti che, se espressi, potrebbero causare ulteriori danni alla relazione o alla percezione che questi ha della relazione. Il termine cutoff (cioè disconnettersi troncando la relazione) si riferisce alle posture di cutoff osservate studiando le specie non umane. Tali posture includono l’atto di girare gli occhi in un’altra direzione, inclinare la testa verso il basso, e altri modi di rivolgere l’attenzione altrove in situazioni di conflitto.
Sono stati descritti gli effetti adattivi che in tali situazioni può avere un evitamento breve: le posture di cutoff mettono l’animale in condizione di non doversi allontanare e di poter rimanere sul posto. Main e indirettamente lo stesso Bowlby, sottolineavano che il risultato del cutoff è (paradossalmente) il mantenimento della prossimità. Quindi, almeno sul momento, troncare la relazione può servire a proteggerla o evitare che la persona debba affrontare l’angoscia, legata all’attaccamento, che ha infiammato la relazione stessa. Disattivando l’attaccamento il soggetto sposta altrove l’attenzione e non deve più fronteggiare un conflitto doloroso, ottenendo il risultato di minimizzare un danno potenzialmente maggiore.
Quand’è dunque che l’evitante tronca? Quando per lui il riconoscimento diretto di questi sentimenti o l’espressione degli stessi sono già diventati troppo spaventanti, troppo angoscianti. Il taglio è spesso agito sorprendentemente in modo “blasé”, con distaccate razionalizzazioni o addirittura senza alcuna spiegazione.
Muller, 2014
Credo che da oggi chiamerò questo comportamento Leave in Silence behaviour.
Per la gioia dei cognitivisti, nelle tessiture liriche di Leave in Silence si possono apprezzare anche ruminazioni e credenze negative autoconfirmatorie, il vuoto metarappresentativo, l’impotenza senza sbocco, la catastrofizzazione, il fallimento delle strategie di autoregolazione che apre la strada al troncamento.
What can I say I don’t want to play anymore – What can I say I’m heading for the door – I can’t stand this emotional violence – Leave in silence
Il secondo brano, My secret garden, ha come focus il tema della vergogna, dell’esclusione e della non-appartenenza.
Satellite invece affronta il ritiro, la chiusura, la disillusione, lo sradicamento della fiducia che attiva un luogo psichico che non contempla più il contatto con l’altro, un luogo da cui viene emesso un unico segnale che respinge, e che serve dunque a stabilire e mantenere la distanza dal resto del mondo.
Monument sembra trattare la delusione/disillusione successiva al fragoroso crollo di un ideale, un valore, una relazione significativa su cui si aveva investito tanto. Un fallimento che comporta il dolore aggiuntivo di scoprirsi miopi, degli scarsi predittori/valutatori che sprecano i loro sforzi muovendosi al buio e senza avere gli strumenti giusti, ovvero le lenti che ci tengono ancorati alla realtà.
Se la minimizzazione delle esperienze negative rappresenta una prima difesa nei confronti dell’attaccamento, questa strategia può non essere più sufficiente; le storie dolorose possono così essere confezionate in modo da apparire positive, razionalizzate e idealizzate. Un monumento, dunque, costruito nel tempo ma che si poggia su fondamenta deboli ed è destinato dunque al collasso.
Il mio invito è dunque a una rilettura (in chiave anche psicologica) e a una rivalutazione di un album troppo presto dimenticato e considerato dai DM stessi il peggiore della loro discografia (c’è da dire che Gore ha un buon ricordo di Leave in Silence e che l’ha pure reinterpretata in versione acustica nel tour del 2006).
Nonostante ciò, può darsi che rimarrà il loro lavoro più modesto e che questa dissertazione apparirà comunque un pippone semidelirante.
Bene, a questo punto mi pare opportuno troncare.
Leave in Silence, cover: link (Youtube), link (Spotify)
Registrata in home studio su Cubase 5 con Arturia Minibrute, Moog Sub Fatty (thanx Rikk), Roland Jx-8P, Native Instruments Absynth 5, Arturia V-Collection, Arturia Spark
Biblio-discografia:
Bowlby J., Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’Attaccamento (Cortina Raffaello, 1996)
Burmeister D., Lange S., Depeche Mode Monument (Biografia, Lit edizioni 2015)
Depeche Mode, A broken frame (Mute Records, 1982)
Malins S., Black Celebration (Biografia, Chinaski 2006)
Miller J., Stripped (Biografia, Omnibus press 2008)
Minale G., Depeche Mode/Bong (Biografia, Blues Brothers 1991)
Muller R.T., Il trauma e il cliente evitante (G. Fioriti, 2014)
Testi delle canzoni:
http://archives.depechemode.com/lyrics/leaveinsilence.html
http://archives.depechemode.com/lyrics/mysecretgarden.html